C’era una volta un principe, in Danimarca o forse due. Il primo principe era pallido e pensieroso e portava un colletto a gorgiera. Il secondo era biondo e bello, e anche se non era nato aristocratico sentiva di avere qualcosa di regale.
Tutti e due erano innamorati: il primo, Amleto, amava la figlia di un cortigiano, Ofelia; il secondo, Søren Kierkegaard, doveva sposare una diciassettenne di nome Regine. Tutti e due erano filosofi. Tutti e due sentivano di avere una missione: il primo doveva vendicare il padre; il secondo una vocazione filosofica. Erano missioni rischiose, e i due lo sapevano; sapevano anche che, per portarle a compimento, sarebbero stati costretti a mettere in pericolo i loro amori. Ponderarono a lungo possibilità e decisioni, soppesarono alternative. Si tormentarono, perché scegliere è difficile soprattutto per chi è malato di riflessione, come scrisse Kierkegaard di Amleto, forse pensando a sé. Tutti e due rinunciarono all’amore.
Lo fecero con una crudeltà quasi insostenibile. Fu un vero sacrificio; un sacrificio segreto, violento e formidabile. Amleto, per tener fuori Ofelia dal suo piano di vendetta, mentre testimoni invisibili li spiano da dietro le tende ha con lei un colloquio che fa accapponare la pelle. Nega di averla mai amata; la deride, la distrugge. Perché lei lo possa detestare, perché possa essere libera, cerca in tutti i modi di rendersi spregevole ai suoi occhi. La sbeffeggia con la crudeltà che solo un amore non ancora finito può consentire. Qualcosa di molto simile fa Kierkegaard. Dopo un anno di fidanzamento con Regine, decide che non potrà mai essere un marito né un padre di famiglia, e neppure un uomo come tutti gli altri; rompe la promessa esattamente come Amleto. Scrive a Regine, una dietro l’altra, lettere che fanno a brandelli i giorni felici, le speranze, la dolcezza, tutto.
I due principi compresero che per poter essere buoni bisogna saper essere crudeli, qualche volta. Amleto dice la frase tremenda: I must be cruel only to be kind. Non che l’epilogo dei loro amori sia poi stato felice: fu tragico come tragica era stata la scelta. Perche' una possibilità si avveri, bisogna sacrificarne un’altra.
È uno di quei paradossi morali di cui talvolta si appropria il senso comune rendendoli placidamente accettabili: come proverbi. Meglio un rimorso che un rimpianto, si dice. Ma se non fosse vero? Il rimorso, per cominciare, non esclude affatto il rimpianto. Ed è sbagliato pensare che il rimpianto nasca dall’inazione; nasce, semmai, dalla convinzione di non aver agito ma anche non scegliere è una scelta.
Ecco che per rendere reale una possibilità, ne hanno cancellata un’altra, confinandola nel limbo dei rimpianti: l’hanno fatto con una crudeltà che merita di essere ripagata col rimorso. Perché non si può scegliere senza macchiarsi. Non ci sono scelte senza conseguenze.
Il rimpianto annebbia lo sguardo sul passato ed è un modo per nascondere il maggiore dei privilegi, che è anche il più grande dei problemi: la libertà di scegliere. Ci convinciamo di non avere scelto, di non aver avuto scelta; ci condanniamo, così, a un placido risentimento da cui non si può tornare indietro. È solo un modo per ricomprarsi un inutile surrogato di innocenza.
da una rilettura di I. Gaspari