venerdì 1 agosto 2025

POETI




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Una dichiarazione di poetica


Cominciò che avevo 21 anni. Forse furono le mollettiere, gli scarponi chiodati, le piaghe ai piedi mentre facevo atletica e il rancio insufficiente; forse fu il crollo nervoso, l'ospedale militare, i giri di chiave dell'infermiere-secondino, i tonfi degli epilettici che stramazzavano al suolo, i passi dei sonnambuli, gli urli dei simulatori e gli occhi di vetro dei pazzi. Forse fu colpa di tutto questo o di altro, di qualcosa che dentro non mi funzionava nel debito modo, ma appena ottenni la licenza di convalescenza e giunsi in Sicilia (era la primavera del '43), la guerra cominciò a non esistere più per me come evento eccezionale, mostruoso.

Cominciai a scrivere versi non so come, ero sempre in preda a non so quale ebbrezza, stordito da sensazioni troppo acute, troppo dolci. Le mille cose che  quella snervante primavera mi proponeva erano magicamente gravide di significati, ricche di acutissime, deliziose radiazioni. Come in una seconda infanzia cominciai a enumerare le cose amate, a compitare in versi un ingenuo inventario del mondo. Tutt'intorno lo schianto delle bombe e le raffiche degli Hurricane, degli Spitfire... Me ne andavo per la colorita campagna nutrendomi di sapori, aromi, immagini; la morte non era elemento innaturale in quel quadro; era come un pesco fiorito, un falco sulla gallina, una lucertola che guizza attraverso la viottola.

Scrissi così i miei primi versi. Poi il tempo passa, gli anni dietro gli anni, gli incontri, le letture, le vicende, i viaggi, la minuta storia che  giorno dopo giorno si viene costruendo (o solo illuminando?), provando e perseguendo i miti, gli emblemi che ci appartengono, ripudiandoli, riprendendoli, coinvolgendone altri nel gioco dell'impegno vitale, sempre seguendo gli interessi che più premono, le secrezioni delle ghiandole, i lasciti ancestrali, i diagrammi sulle interne cartelle, i furori e gli amori mutevoli e fedeli, le tappe in avanti, le tappe a ritroso del comune cammino.

La storia dei miei versi non può che coincidere con la mia storia umana. Rifiuto e considero vietate le fredde determinazioni dell'intelligenza, le esercitazioni (sia pure civilissime), le sperimentazioni che furbescamente o ingenuamente tentano l'impossibile colpo di dadi.

Non mi riesce di capire il "mestiere" di poeta, i ferri, il laboratorio di questo "mestiere". Quella del poeta è secondo me una pura e semplice condizione umana, la poesia appartiene alla nostra più intima biologia, condiziona e sviluppa il nostro destino, è un modo come un altro di essere uomini. Di là dagli schemi mentali, dalle velleità, dalle frigide volizioni e dalle sapienti masturbazioni, la poesia nasce sotto il segno apparente dell'imprevisto (vi sono misteriose maturazioni, catalizzatori non sempre identificabili, forze e forme insospettate che si liberano rompendo lo stato di "quiete", che scattano e si scatenano secondo le linee d'un disegno naturale a cui bisogna con coraggio arrendersi, individuandolo e potenziandolo, per quanto consentito, con accorta vigilanza in mezzo alla selva allettante degli inganni, dei miraggi, delle false rappresentazioni). Poesia è dunque per me avventura, viaggio, scoperta, vitale reperimento degli idoli della tribù, tentata decifrazione del mondo, cattura e possesso di frammenti del mondo, nuda denuncia del mondo in cui si è uomini, cruento atto esistenziale.

Ma forse, al giorno d'oggi, mi sbaglio, sono un ingenuo, un sempliciotto: ben altri discorsi, forse, dovrei fare. Ho comunque mille ragioni più di Apollinaire per invocare pietà (1).


Bartolo Cattafi


(1)  "Pietà per noi che sempre combattiamo alle frontiere // Dell’illimitato e dell’avvenire / Pietà per i nostri errori e per i nostri peccati" G. Apollinaire







da “ The Dry Air of the Fire: selected poems” Bartolo Cattafi