domenica 24 maggio 2020

QUALCOSA DI BELLO



                                                       Albedo  -   Emil Alzamora   




La scultura è come l’arte drammatica, la più difficile e insieme la più facile di tutte le arti. Copiate un modello, e l’opera è compiuta; ma imprimervi un’anima, creare un tipo, nel rappresentare un uomo e una donna, è il peccato di Prometeo. Nella scultura questi successi sono rari quanto nell’umanità lo sono i poeti. Michelangelo, Michel Columb, Jean Goujon, Fidia, Prassitele, Policleto, Puget, Canova, Albrect Durer sono i fratelli di Milton, di Virgilio, di Dante, di Shakespeare, di Tasso, di Omero e di Molière. L’opera di questi scultori è così grandiosa che basta una sola statua a rendere immortale uno di loro.
Cosi' la pensava Honoré de Balzac. 

Le sculture minimaliste di Emil Alzamora rappresentano il corpo umano nella sua forma più pura. Le sue figure sono spesso raffigurate come se fossero catturate in uno stato di animazione sospesa influenzato da forze interne ed esterne. Anonime, simboleggiano una comprensione universale per il corpo umano nelle sue varie manifestazioni.
L'artista afferma: “Il per sempre è adesso. La scultura è l'incarnazione perfetta di questa atemporalità ”. La sua intenzione è quella di catturare questa "sospensione" temporale e condividere la sua esperienza del "presente allargato."

venerdì 15 maggio 2020

VERITA'

Sbaglierebbe chi pensasse che la sincerità sia un bene assoluto, da opporre alla menzogna come male assoluto, poiché si può fare uso della sincerità anche per offendere e ferire a morte, per umiliare o vendicarsi. L'uomo sincero, per definizione, dice la verità o quella che crede tale, talvolta quindi ingannandosi e traendo in inganno, senza volerlo. 
In un passo delle Confessioni, Agostino si chiede perché veritas odium parit ( la verita' attira l'odio ). La risposta del vescovo di Ippona è che l'amore per la verità non è disinteressato, equanime e imparziale: gli uomini amano la verità quando non li riguarda, ma la odiano quando riguarda loro stessi e li mette a nudo sotto gli occhi degli altri. 
Si deve sempre dire la verità che si conosce? Vi sono casi in cui è ammesso mentire? Agostino e Kant non ammettono eccezioni al dovere di dire la verità. Per il primo la menzogna è l'origine stessa del peccato. Agostino non considera legittima la menzogna neppure nel caso in cui mentire potrebbe salvare la vita a qualcuno, dato che in tale circostanza si tratterebbe di un dovere che riguarda la salvezza del corpo al prezzo di perdere l'anima. Tanto più che ci sono altre vie per raggiungere lo stesso risultato, evitando così di mentire, come il silenzio o l'omissione o il sacrificio di sé ed ha, a questo proposito, un consiglio preciso: «Quello che dici, deve essere assolutamente vero; ma non devi per forza dire tutto quello che è vero».
In Kant la sincerità è una virtù assoluta che coincide con il dovere della veridicità. Il principio per cui si deve dire la verità è per Kant il principio formale supremo della moralità, dal quale è impossibile essere esonerati.
Lo scettico Montaigne invece non insegue alcuna verità, e afferma che non esiste una verita' universale.
Pensiamo alla terribile scena iniziale di Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino, in cui il colonnello nazista interroga il contadino francese, chiedendogli se dia rifugio ai nemici dello stato, la famiglia ebrea dei Dreyfus. Tutti desideriamo che il contadino menta e invece, La Padite dice la verità e denuncia la famiglia ebrea per proteggere la propria. 
In un saggio sulla sincerita' e' stata coniata l'espressione "virtù crudele" per indicare l'atto del dire la verità che si accompagna all'assunzione di responsabilità e al farsi carico delle conseguenze anche dolorose, per sé e per gli altri, della pratica effettiva della sincerità. Tra il semplice dire la verità e la sincerità la differenza consiste proprio nel coinvolgimento attivo nel rapporto con gli altri. 

L'Opinione è qualcosa di fluttuante, ma la Verità, dura più del Sole – se poi non riusciamo ad averle entrambe – prendiamo la più vecchia.
Emily Dickinson

giovedì 7 maggio 2020

DALLA PARTE DELL'ASINO. UNA LETTURA ALTERNATIVA

Gli asini vivono nella maggior del mondo accanto agli esseri umani, una presenza integrata in molte culture. Anche se in gran parte del mondo sviluppato non sono più utili per gli sforzi umani, in Africa tirano ancora carri, portano carichi pesanti in India, trasportano turisti in Grecia e bambini in gita lungo le spiagge britanniche. Se consideriamo da quanto tempo sono addomesticati e quanto siano stati preziosi nella storia umana, sappiamo ben poco della loro vita o delle loro storie, o anche del loro benessere. Non è che sono sconosciuti, ma generalmente passano inosservati. Mentre attraversavano il mondo al servizio dei loro padroni umani, gli asini sono stati tra gli animali più usati e abusati della storia (...)
Si dice che hanno la vita lavorativa più lunga, che sono in grado di operare nelle aree più aride, che sopravvivono con poco cibo, che sono meno soggetti a malattie, che sono in grado di lavorare a velocità variabili e che, rispetto a cavalli, muli e buoi, hanno un’elevata capacità d’apprendimento. (...) Anche se noti come buoni lavoratori, gli asini hanno un forte senso di autoconservazione, il che ha influenzato la loro fama di testardaggine. (...) Nonostante il servizio prestato agli esseri umani in ogni epoca e società, gli asini tuttavia hanno ottenuto pochi riconoscimenti. Le ingiustizie e le offese che hanno ricevuto costituiscono motivo di riflessione per vari osservatori (...)

L’asino di Jill Bough, edito da Nottetempo nella collana Animalía, e' un’indagine delle nostre percezioni, dei nostri giudizi e soprattutto dei nostri pregiudizi. 
Dalla Favola del cavallo e dell’asino di Esopo a Platero e io di Juan Ramón Jiménez, dall’Asino d’oro di Apuleio al Viaggio nelle Cévennes in compagnia di un asino di Robert Louis Stevenson, una narrazione dopo l’altra il somaro è assunto come figura dell’umiltà o della curiosità, di lussuria e malvagità; quando in Collodi Pinocchio si ritrova con le orecchie allungate come «due spazzole di padule», ciò che avverte è vergogna e disperazione, mentre è in Don Chisciotte che il ciuco semplice e onesto cavalcato da Sancho si fa emblema del silenzio paziente.
Ma l’asino resiste. Carico di balle di fieno lungo un sentiero della campagna etiope, legato alla macina che polverizza peperoncini in un villaggio cinese, usato per trasportare i pali di legno utili per puntellare le miniere del Far West o come cavalcatura dei soldati australiani durante la Prima guerra mondiale, l’asino resiste; introdotto come prova in tribunale quando a Londra nel 1822 Richard Martin chiese e ottenne di rendere inequivocabili le ferite che erano state inflitte all’animale dal suo padrone (da qui il Martin’s Act, la prima legge a contrastare la crudeltà contro gli animali), trasportato in aereo dalla US Army durante la Seconda guerra e gettato giù col paracadute (dopo averlo drogato perché atterrando non irrigidisse lezampe);
e ancora, seppure descritto come immagine di stupidità, di pigrizia, di potenza sessuale e di mitezza, al contempo sacro e osceno, esposto, esibito, spettacolarizzato o umiliato, l’asino non fa altro che resistere.
Unico e molteplice, appartenente a un drappello di animali struggenti, l’asino ha attraversato i millenni sopportando l’insopportabile e opponendo all’ottusità del mondo una tenacia asciutta e senza eroismi.


fonte: G. Vasta

venerdì 1 maggio 2020

MAGGIO


Paul Cezanne  -  Autoritratto  -  1875



Paul Cezanne nell'arco della vita dipinse circa 200 ritratti di cui un quarto sono autoritratti; il primo autoritratto di giovane ventenne e l'ultimo pochi anni prima della morte nel 1906. Se gli impressionisti volevano cogliere la luce sfuggente, Cézanne punta a rappresentare la realtà delle forme e la solidità eterna delle cose. Dipingo corpi, non anime, disse l'artista, ammettendo però che “se i corpi sono ben dipinti, l'anima ci brilla dentro”.
Non aveva alcun interesse per l'introspezione psicologica, non voleva scavare nel cuore della persona ritratta o inviare messaggi sul suo stato d'animo.
Per lui i ritratti sono come i paesaggi o le nature morte: sono dipinti, e l'unica cosa che importa è la pittura e come riesce a rappresentare la realtà. Quello che contano sono le pennellate, e come in successione e sovrapposizione creano una struttura che diventa l'immagine. 
In questo autoritratto giovanile, Cézanne, trentaseienne, si ritrae con lo sguardo severo, penetrante, risoluto. Un ritratto spietato e senza compiacimenti, metafora del rigore e del fervore ma anche dell'insoddisfazione con cui si dedicava alla ricerca pittorica. A quegli anni risalgono queste parole indirizzate alla madre: «Devo sempre lavorare, non certo per giungere al 'finito', che suscita l'ammirazione degli imbecilli. Porto a termine soltanto per il piacere di far cose più vere e più sapienti.»
E dei primi anni del Novecento è questo brano di lettera a Vollard, amico e primo grande collezionista delle sue opere: 
Ho conseguito qualche progresso. Perché così tardi e così faticosamente? Sarà l'arte effettivamente un sacerdozio che pretende dei puri che gli appartengano interamente? 
Per Cézanne l'arte fu davvero una religione, ai cui misteri offerse da 'sacerdote' una devozione tormentata e assoluta.